A cura di Enrico Maurizzi, Andrea Pulvirenti – Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Negli ultimi anni, la regolamentazione sugli additivi alimentari è diventata molto più stringente. Questo fenomeno ha portato a mettere in discussione molti composti e molecole attive che sono sempre state date per scontate e impiegate in maniera intensiva in campo alimentare, soprattutto per preservare gli alimenti e allungarne la shelf-life. In particolare, l’impiego di antimicrobici e antifungini di origine sintetica (benzoati, nitrati, solfiti, sorbati, ecc.) è spesso il risultato di un compromesso, dovuto alla necessità di queste molecole sul mercato, per consentire alle aziende di ottenere prodotti durevoli da vendere al consumatore, ma che allo stesso tempo possono causare danni a lungo termine alla sua salute. La necessità di un cambiamento in questo ambito è stata riconosciuta dall’Unione Europea e Nazioni Unite, che tramite il Green Deal e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, hanno cercato di dare spinta a una transizione in questo settore.

A tal fine, numerosi studi in letteratura hanno individuato come possibile soluzione l’adozione di additivi alimentari naturali. Essendo di origine naturale, comportano molti meno rischi per la salute umana e risultano inoltre più sostenibili per l’ambiente, in conformità con gli obbiettivi posti a livello europeo. Numerosi sono gli studi riferiti a questo tipo di molecole, le quali possono avere varia origine. Tra le più note, troviamo sostanze ed estratti da piante, come gli oli essenziali (origano, carvacrolo, timolo. geraniolo, ecc.) o le spezie (chiodi di garofano, rosmarino, cannella, ecc.), comunemente riconosciuti per la loro naturale attività antimicrobica e antifungina. Questa attività è principalmente dovuta alla presenza di acidi fenolici, terpeni, chetoni, tannini, flavonoidi, saponine, e molti altri, i quali spesso sono accompagnati anche da una notevole attività antiossidante, permettendo non solo di preservare l’alimento da un punto di vista microbiologico ma anche sotto il profilo delle propietà organolettiche. Un’altra categoria interessante è rappresentata dalle proteine e peptidi bioattivi di origine animale. In questo caso si parla principalmente di secrezioni animali in grado di proteggere l’organismo in maniera aspecifica nei confronti di potenziali patogeni esterni, in grado di causare infezioni. Basti pensare al lisozima o alle proteine del latte materno, come la lattoferrina e la lattoperossidasi.
Un’altra categoria molto importante è rappresentata dalle molecole di origine batterica e fungina. Tra le più comuni, vi sono i batteri lattici, generalmente riconosciuti dall’EFSA come sicuri per il consumo umano tramite la sigla “Qualified Presumption of Safety” (QPS), che rappresentano da sempre un utile mezzo per la stabilizzazione di prodotti alimentari, grazie alla produzione acidi organici e batteriocine (nisina, pediocina, reuterina). Queste ultime non sono altro che proteine o peptidi prodotti a livello ribosomiale, noti per la loro assenza di tossicità per l’uomo, la biodegradabilità e digeribilità a livello intestinale e l’attività antimicrobica.
Anche i lieviti sono in grado di produrre molecola bioattive simili, chiamate “micocine”, che ostacolano la crescita microbica e preservano gli alimenti.
Nonostante ciò, la principale attività di preservazione svolta dai lieviti è dovuta alla produzione di etanolo. Quelli appena citati sono solo alcuni degli esempi possibili tra le molecole naturali usate a questo scopo. Ovviamente non tutte possiedono lo stesso potere antimicrobico, ma rappresentano ugualmente una valida alternativa agli additivi chimici presenti sul mercato, permettendo inoltre un impiego combinato per ottenere un’attività antimicrobica equiparabile, o superiore. Nella stragrande maggioranza dei casi, queste molecole presentano un’attività antibatterica ad ampio spettro. Per questo motivo sono state citate come possibili soluzioni all’annoso problema della “multi-drug resistence” causata dall’utilizzo intensivo di antibiotici in ambito medico e zootecnico, permettendo di colmare il vuoto lasciato dagli antibiotici non più efficaci.
Nonostante ciò, poche tra queste sostanze sono enumerate nel vigente regolamento sugli additivi alimentari 1333/2008 della Commissione Europea. Anche se presenti, spesso possono essere impiegate solo per pochissimi alimenti e in concentrazioni molto basse, portando alla necessità di accompagnarle ad altri additivi chimici permessi. Sebbene siano componenti naturali e generalmente più sicure rispetto agli additivi di sintesi, il meccanismo di azione degli antimicrobici naturali è poco chiaro, portando inevitabilmente a incertezza sulla regolamentazione indiscriminata di queste molecole, in assenza di una conoscenza più approfondita. Un maggiore approfondimento su questi meccanismi potrà sicuramente aiutare a introdurre con più confidenza queste molecole sul mercato.
Ma come possono essere impiegate queste sostanze come additivo nel campo alimentare? Le applicazioni sono innumerevoli ma le più promettenti sono tre in particolare: l’applicazione diretta all’alimento, l’incorporazione in nanoparticelle e l’applicazione in edible film o coating addizionato. La prima tra queste risulta essere la più complessa a causa dell’odore e sapore che possono impartire al prodotto. Le altre due risultano molto più interessanti e praticabili sulla base della letteratura presente. In particolare, l’utilizzo di biofilm e coating edibili è una via di applicazione che permette di includere molecole antimicrobiche all’interno di polimeri, anch’essi di origine naturale, consentendo di sostituire le plastiche derivate dalla raffinazione del petrolio. In questa maniera risulta plausibile ovviare anche agli obbiettivi di sviluppo sostenibile posti dall’Unione Europea legati alla produzione e smaltimento di materie plastiche. Nel regolamento (CE) n°1333/2008 sono attualmente già presenti molti di questi biopolimeri, ma la maggior parte di questi sono estremamente solubili in acqua, il che non permette loro di perdurare a lungo su prodotti stoccati o conservati in condizioni di umidità normali o elevate. Per questo motivo questa soluzione attualmente non risulta praticabile e poco conveniente. L’ingegnerizzazione di questi biopolimeri per renderli meno igroscopici, unitamente all’impiego di nuovi biopolimeri più idrofobici, potrà sicuramente aiutare a una transizione verso un’economia alimentare più sostenibile per l’ambiente e per la nostra salute.
Da sottolineare è anche la possibilità di poter estrarre e valorizzare scarti agro-alimentari per ottenere molecole antimicrobiche e biopolimeri dal valore aggiunto, contribuendo così a adempiere ai principi dell’economia circolare e dando nuova vita agli scarti che produciamo ogni giorno nella nostra vita quotidiana. Si stima infatti che il 44% dei rifiuti prodotti da ogni persona a livello globale siano rappresentati da cibo.
L’impiego e l’utilizzo di molecole e polimeri naturali rappresentano oggi un importantissimo strumento da poter utilizzare per ottemperare alla necessità di una transizione sostenibile in un’ottica green. Ad oggi, queste potenziali soluzioni non risultano essere plausibili a causa della mancanza della tecnologia e conoscenza necessaria. Nonostante ciò, risultano essere strade promettenti da seguire e da approfondire, come dimostrato dal fomento scientifico degli ultimi vent’anni.
